Servi della gleba?

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E’ davvero la verità quella che ci viene raccontata sui servi della gleba o sono piuttosto dei semplici luoghi comuni? Nella nostra memoria collettiva, soprattutto quella di studenti, abbiamo sempre sentito parlare di servi della gleba, quei poveri contadini sfruttati all’inverosimile dal signore di turno per il proprio tornaconto personale. L’immaginario collettivo è potente ma l’evidenza delle fonti denuncia in realtà un falso storico. Nulla infatti di tutto questo è vero. O meglio: quelli che vengono chiamati servi della gleba non sono mai esistiti, ma sono una mera invenzione storiografica dei medievisti del XIX secolo. Infatti il termine adscriptus glebae o adscripitus (un contadino cioè vincolato giuridicamente alla sua terra) ricorre rarissimamente nelle fonti storiografiche e si tende spesso a considerare l’economia dell’alto medioevo come un’economia  chiusa e naturale, in sostanza un forma di baratto esercitato con prodotti in natura, falso.

Torniamo ai nostri servi della gleba. Le stesse ricerche di Bloch influenzarono forse in parte la condizione di questi contadini attribuendo loro una condizione migliore di quella del semplice schiavo; essi infatti venivano considerati più liberi ma con l’obbligo (anche per i loro discendenti) di lavorare la terra per il signore. Anche questa visione è per l’appunto errata: non esistono campagne medievali popolate dai servi della gleba; infatti sono pochissimi i casi di contadini vincolati alla terra, ricorrenti per lo più nelle campagne del bolognese e vercellese.

Dopo la caduta dell’Impero Romano dobbiamo infatti immaginare un lento ed inesorabile disfacimento dell’organizzazione imperiale che coinvolse anche l’agricoltura. Lentamente andarono formandosi piccoli borghi o città, al di fuori delle quali si formò una zona denominata dominicum (che riprendeva in parte le antiche villae romane) che era sotto stretto controllo del padrone e dove venivano impiegati direttamente i servi ed il massaricium che invece era data in concessione ai coloni liberi, che pagavano un affitto in denaro o natura (le famose corvées di carattere agrario, da latino corvaria o corvata che corrispondeva ad una richiesta forzosa)  ed integravano parte delle giornate di lavoro nel dominicum. Tutta questa organizzazione andava sotto la classificazione di sistema curtense o curtes, che comunque non prevedeva necessariamente un’economia chiusa ed autosufficiente. La testimonianza della presenza di piccoli mercati locali lascia intendere appunto che vi fosse anche circolazione di moneta e scambi di prodotti tra i vari villaggi. Una sorta di mercato misto.

A parte quei pochi servi che giuridicamente erano vincolati alla terra e non solo, la maggior parte era invece costituita da coloni liberi che potevano certamente essere perseguiti da un tribunale signorile o comunale ma non potevano certo essere  condannati in quanto “servi della gleba”, quanto piuttosto per aver infranto un accordo (spesso verbale) che durava come minimo ventinove anni (29 anni!) o era comunque una locazione vitalizia o addirittura ereditaria. Insomma, a ben guardare, avevano delle condizioni contrattuali di tutto rispetto (impensabili oggi) e molto più durature e stabili, in cambio di un affitto per l’usufrutto della terra da coltivare. Il confronto con l’oggi è impari.

Per approfondire

G. Sergi (1998), L’idea di Medioevo, Roma, Donzelli Editore

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