La globalizzazione al tempo del medioevo

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Qual è il fine ultimo della globalizzazione? E’ il cieco fideismo nei mercati, dove la ragione e l'uomo non sono più al centro, ma ridotti la prima ad inutile esercizio speculativo  ed il secondo a puro individuo acritico; soggetto depensante e mero consumatore acefalo di merci inutili e superflue. Studiare è pericoloso e ricordate, disse Ubertino da Casale: getta via tutti i tuoi libri! La conoscenza è seduttiva e per questo essa stessa è pericolosa, ma questo lo aggiungo io. E’ per tal motivo che mi accingo a fare un piccolo parallesimo che mi è sovvenuto nei giorni scorsi. Chi non ricorda il personaggio di Salvatore ne Il nome della Rosa, l’eretico dolciniano, sfuggito, una prima volta, al braccio della Santa Inquisizione e rifugiatosi insieme a Remigio da Varagine in un abazia benedettina, di cui è pietoso e saggio tacere anche il nome? La risposta è pleonastica ovviamente.

Ma azzardo anche che nessuno ha mai pensato all’eretico fratello come ad una delle prime vittime simboliche della globalizzazione. Si perché Salvatore appunto, in un mondo erudito ed apparentemente chiuso come quello ecclesiastico, era l’unico bifolco, l’uomo del popolo ispirato da Dolcino, che aveva tentato di opporsi al pensiero unico dominante, incontrovertibile. Un personaggio che Eco dipinse necessariamente amabile, simpatico, l’unico che sapeva fondere più lingue insieme, latino francese inglese in una sola neolingua, una sorta di esperanto ante litteram. Parlava tutte le lingue e nessuna, ma non il tedesco, ci avete fatto caso? Anch’io me ne sono reso conto solo ora. Tra i suoi dialoghi più riusciti c’è quello di presentazione ad Adso da Melk, il novizio di Guglielmo da Baskerville, nell’antro della cattedrale con i bassorilievi oppure quello straziante con l’inquisitore Bernardo Guy in cui afferma dopo essere stato brutalmente torturato: oh si, domine belissimi, eretnait tuti eretnait, salonisti, pataristi circumsisi, ma io no homo literatus, I sin sensa malitia, I bage magnificentissimo, no save, no save nada, stupido ah supido, mi no no nothing.

E’ tutta qui  l’essenza primigenia della globalizzazione, in quel no homo literatus;  la globalizzazione che stava ammantando il tardo medioevo era allora rappresentata dal pensiero unico e dominante della Chiesa imposta e pensata dall’uomo per l’uomo come potere temporale più che spirituale, dove contava un'unica visione del mondo. Ed il pensiero unico dominante non poteva essere messo in discussione, pena allora la scomunica o peggio ancora la bolla d’eresia. La sfiorarono per un soffio anche i Francescani che andavano predicando la povertà di Cristo e si chiedevano del perché la Chiesa di Nostro Signore non dovesse seguire anch’essa lo stesso principio.

Ecco, Salvatore è simbolicamente la prima vittima, per la verità insieme a Remigio, dell’opposizione al pensiero unico dominante, che non può essere messo in discussione, di cui bisogna accettare pedissequamente tutte le regole imposte. Contraddirlo apertamente è pura eresia, punita con il rogo. Così Salvatore confessa il falso pur di non finire sulle fiamme purificatrici, e lo stesso Remigio al solo pensiero di essere torturato, confessa il suo passato da eretico dolciniano. Ed il ciclio si chiude.

Ma rimane un passo, forse poco noto, in cui viene offerta la possibilità alla pecora infetta di abiurare; la mente di Salvatore però è obnubilata e ottusa e non comprende l’offerta di quel gesto salvifico, stessa sorte per Remigio che invece fieramente si oppone, non tanto alla Chiesa di Dio ma alla chiesa costruita dall’uomo, incarnata nella figura di Bernardo Guy e sprona Salvatore a ricordare appunto Dolcino.

E’ tutta qui la perenne ed eterna lotta tra il potere costituito ed imposto e il guerriero, che credendo di operare nella luce della giustizia, agisce e lotta contro il nemico.

Penitenziagite!

Ma io no dico penitenziagite, I am monco, Sancti Benedicti!

La conquista del tempo libero

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Sembrerà una banalità ma il vero ricco è chi dispone del proprio tempo libero, un bene preziosissimo che nessuno potrà mai rubarci. Sarà una mia percezione, ma mai come in questi ultimi venti/venticinque anni la gente è così stanca e sfinita dal tempo investito nel proprio lavoro. E’ fuori di dubbio che siano aumentati in maniera esponenziale gli impegni lavorativi (in parte per sopperire la carenza di altro personale non più rimpiazzato soprattutto nella PA e dall’altra per aumentare la “produttività”) tutto ciò a discapito della vita sociale e relazionale. 

L’iperconnessione poi non aiuta certo a staccare e la reperibilità continua ingenera fretta ed ansia, sempre cattive consigliere per ogni decisione. Forse c’è anche una abitudine condivisa che è quella di lamentarsi continuamente, ma molte persone che incontro  o di cui capto furtivamente qualche scambio di battute ripetono sempre la stessa frase: “arrivo a casa la sera sfinito e alle nove mi addormento sul divano”. Per cosa poi? Per essere sempre più competitivi? Con chi? E per che cosa? Ha un senso tutto questo? Questa condizione è figlia del tempo in cui viviamo e della società che ci aveva promesso che avremmo tutti lavorato di meno e aumentato le nostre ricchezze grazie alla tecnologia ed invece ci costringe a comprimere sempre di più i momenti di libertà, il tempo libero, la nostra vera ricchezza.

Ve la ricordate la rivoluzione digitale con la carta? Penso che siano ormai appunto trent’anni che possiamo evitare di stampare documenti perché li abbiamo in forma digitale, ma tutt’ora si continuano a fare entrambe le cose (a parte che in termini di dispendio energetico costa molto meno stampare un documento piuttosto che mantenere un server con un archivio digitale che consuma a dismisura, ma questo è un altro discorso).

Sembrerà una banalità ma il vero ricco è chi dispone del proprio tempo libero, un bene preziosissimo che nessuno potrà mai rubarci.
Fatene tesoro.

C'erano una volta i cartoni animati

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Striduli ansiogeni ed irritanti personaggi senza anima propongono episodi in cui non esiste più un riferimento centrale, non c’è più una storia di fantasia o comunque trasposta dalla realtà. Rimango sempre più esterrafatto di fronte all’insignificante messaggio dei cartoni animati di oggi che vengono proposti alle giovanissime generazioni. Più che insignificante definirei addirittura deleterio e dannoso il loro messaggio di fondo. Per lo più, con qualche rarissima eccezione (che non mi viene in mente sinceramente), rappresentano il nulla totale, il vuoto assoluto o nel migliore dei casi la vanità più totale. E’ addirittura ammessa l’eruttazione o la flatulenza gratuita, stimolo per la deflagrazione del riso.

Servi della gleba?

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E’ davvero la verità quella che ci viene raccontata sui servi della gleba o sono piuttosto dei semplici luoghi comuni? Nella nostra memoria collettiva, soprattutto quella di studenti, abbiamo sempre sentito parlare di servi della gleba, quei poveri contadini sfruttati all’inverosimile dal signore di turno per il proprio tornaconto personale. L’immaginario collettivo è potente ma l’evidenza delle fonti denuncia in realtà un falso storico. Nulla infatti di tutto questo è vero. O meglio: quelli che vengono chiamati servi della gleba non sono mai esistiti, ma sono una mera invenzione storiografica dei medievisti del XIX secolo. Infatti il termine adscriptus glebae o adscripitus (un contadino cioè vincolato giuridicamente alla sua terra) ricorre rarissimamente nelle fonti storiografiche e si tende spesso a considerare l’economia dell’alto medioevo come un’economia  chiusa e naturale, in sostanza un forma di baratto esercitato con prodotti in natura, falso.

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